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Samuele Chiovoloni, un giovane autore corcianese alla ribalta sulla sua strada rivoluzionaria

mercoledì 27/05/15 EVENTI E CULTURA 0 commenti

carmentalia kate winslet leonardo di caprio revolutionary road richard yates roma sam mendes samuele chiovoloni teatro teatro di sacco eventiecultura

carmentalia kate winslet leonardo di caprio revolutionary road richard yates roma sam mendes samuele chiovoloni teatro teatro di sacco eventieculturaQualche settimana fa ha debuttato in un teatro romano – il Cometa Off al Testaccio – uno spettacolo dal titolo “On the Revolutionary Road“.
Riferimento e soggetto è il romanzo – capolavoro della letteratura del ‘900 – che Richard Yates scrisse nel 1961.
Il pubblico romano ha potuto assistere ad una riduzione teatrale per due attori che esplora le latitudini oscure della vita sentimentale e domestica dei due protagonisti, April e Frank Wheeler.
“On the Revolutionary Road” è una produzione dell’associazione culturale “Carmentalia” che si avvale delle interpretazioni di Elisa Menchicchi e Giulio Forges Davanzati.
L’artefice di questo lavoro, colui che ha scritto di suo pugno la sceneggiatura e diretto la produzione è Samuele Chiovoloni, un giovane autore corcianese che ruota nell’universo del “Teatro di Sacco” di Perugia.
Corcianonline lo ha intervistato per scoprire chi è Samuele e parlare di teatro e del “suo” teatro.

Perché la scelta di ispirarsi a Revolutionary Road?

Revolutionary Road è stato dimenticato per anni. Un gioiello sepolto dalla incessante produzione di testi statunitensi. Lo stesso Yates che innegabilmente ha ispirato la corrente del realismo americano (vedi il Raymond Carver di cui si parla nel film Birdman) è rimasto schiacciato dall’etichetta di “scrittore per scrittori”, un virtuoso della parola e della sequenza incapace però di conquistare una grande massa di lettori. La produzione di On the Revolutionary Road è nata dal mio incontro con Elisa Menchicchi e Giulio Forges Davanzati e dal nostro grandissimo amore per questo romanzo. Il desiderio era quello di confrontarci con la società americana degli anni 50-60, la prima grande utopia realizzata del dopoguerra, una macchina perfettamente funzionante all’apparenza ma viziata da un difetto di fabbricazione.

Come sta andando lo spettacolo?

Lo spettacolo ha avuto un battesimo a Perugia l’anno scorso in forma di studio, presso la Sala Cutu e il Teatro Sant’Angelo. La settimana al Cometa Off di Roma ci ha offerto la possibilità di esplorare nuove latitudini del lavoro, sviluppare punti che ancora erano rimasti in stato embrionale. Il pubblico ha reagito come speravamo, si è lasciato trascinare all’interno della pieghe della trama, ha accettato il nostro codice ed ha apprezzato le nostre scelte. Abbiamo ricevuto anche ottime critiche da riviste per il teatro e webzine. Ora stiamo aspettando le risposte per le stagioni ufficiali e contiamo di girare per l’Italia concentrando le date in qualche mese.

Nella tua messa in scena, quanto c’è del libro e quanto del film?

Del film di Sam Mendes ho apprezzato alcune scelte di montaggio ma non molto la scelta dei contenuti da esibire. I personaggi del film appaiono non sempre all’altezza della profondità psicologica del romanzo. Da questo punto di vista ritengo che la scena abbia aiutato più di quanto non faccia la macchina da presa. La scena presuppone un’immedesimazione inevitabile in virtù della “presenza” del dramma. Del romanzo c’è persino una parte di narrativa, salvata in forma meta-teatrale, non volendo sottrarre a Yates e alla sua parola diretta la licenza di descrivere gli aspetti più complessi e stratificati della vicenda.

La vicenda narrata può essere trasposta ai nostri giorni come una critica alla società attuale?

Assolutamente si. I due personaggi (Frank e April) hanno ambedue un problema con la responsabilità. Revolutionary Road non è un dramma morale, l’autore mostra una certa indulgenza verso i personaggi, però dimostra quasi scientificamente che non c’è scappatoia per chi gioca a non prendersi sul serio. E’ un problema che la mia generazione vive in modo ancora più emergenziale. Questo rimandare il momento del confronto, del bilancio, mantenendosi sulla modalità del “vivacchiare” è alla base di ogni indagine sociologica sulla mia fascia d’età. Per non parlare poi della “Società Aperta” che gli States hanno provato ad essere che s’è trasformata invece in un coacervo di ignoranza e ottusità. Lo specchio fedele del paese in cui sono cresciuto, ammantato di retorica ma incapace di confrontarsi con le opportunità e necessità del tempo presente.

Le persone inseguono la felicità: capita mai di raggiungerla?

Probabilmente va intesa come un ideale regolativo, una specie di luogo verso cui tendere. La felicità non è la somma delle condizioni necessarie a provarla, non è un risultato. Me la immagino più come uno stadio intermedio, con le sue conflittualità e le sue spigolature. Sicuramente qualcosa cui è necessario predisporsi e non negarsi.

Cos’è il teatro oggi?

È un fenomeno che sfugge agli indicatori. C’è un altissimo numero di praticanti, autori, aspiranti-qualcosa, ma non c’è una condivisione all’altezza di questo movimento. Per quanto mi riguarda il giudizio rispetto al momento non è positivo. Se ne guarda meno di quanto se ne faccia, se ne studia di meno di quanto se ne produca. Il centro dell’attività teatrale, e i maestri del novecento ne hanno parlato in continuazione, è nel processo e non nel prodotto. Bisogna recuperare il piacere “monastico” dello studio della materia e lasciare un po’ indietro l’estasi da esibizione. E dobbiamo scegliere e selezionare i migliori maestri anche secondo questo punto di vista.

Secondo un giovane autore come te, come si possono avvicinare i giovani spettatori al teatro?

Io sono arrivato al teatro tramite la mia passione per la letteratura. I giovani si possono avvicinare al teatro solo attraverso la fascinazione, vedere e far vedere cose buone è molto utile al movimento tanto quanto è dannoso far vedere lavoro brutti o artificiosamente incomprensibili. Il giovane spettatore va rispettato nelle sue esigenze di comprensione ed è per questo che credo molto in un teatro “di parola”, di trama, di racconto.

Quando ti sei avvicinato alla scrittura?

Da ragazzino con Molnar e “I ragazzi della via Paal” ho scoperto che la lettura aveva un potere mimetico. Sono cresciuto con la ferma idea di voler diventare un Giovanni Boka (capo dei ragazzi dell Via Paal) e di essere un riferimento per le persone intorno a me. Ho scritto quasi sempre, specialmente narrativa, ma penso che il momento migliore per scrivere per me stia arrivando adesso, con un po’ di vita alle spalle e meno fretta. Ho frequentato la scuola Holden di Torino ma la mia formazione è personale, legata alla filosofia e alla letteratura contemporanea specialmente francese e americana. La mia formazione teatrale invece è legata specialmente al mio lavoro con Teatro di Sacco e al mio incontro con Roberto Biselli, una persona fondamentale e un artista di grandissima intelligenza e capacità analitica, che mi ha introdotto al mondo della regia.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

Lavoro con Teatro di Sacco per quanto riguarda pedagogia teatrale, formazione e produzioni. Abbiamo i diritti di un testo importante e stiamo decidendo come affrontare questo passaggio. Poi insieme ad un gruppo di coetanei sto preparando una serie di stage di studio. Lavoriamo ad un collage di racconti statunitensi che potrebbe diventare uno spettacolo sperimentale.

“On the Revolutionary Road” sarà messo in scena nei teatri umbri?

È una possibilità che dobbiamo ancora verificare ma speriamo proprio che sia possibile. Magari proprio a Corciano!

Lorenzo G. Lotito

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